Da quando, quasi 16 mesi fa, è iniziata la pandemia si è cominciato a parlare insistentemente – e non sempre in maniera appropriata – di “resilienza”: si è fatto ricorso a questo concetto per esaltare la reazione positiva ed adeguata – soprattutto nella prima fase – degli italiani e di come le istituzioni ed il sistema sanitario hanno saputo affrontare questa situazione più che straordinaria. Il concetto di resilienza è entrato anche nel mondo dell’economia e della politica, tanto da essere inserito nel nome del piano di rilancio finanziato dal New generation EU, l’ormai famoso Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).
Ma che cos’è questa resilienza di cui si sente tanto parlare? Cosa significa quell’espressione che ci siamo sentiti rivolgere tutti tante volte, “siate resilienti”?
In questo articolo ho cercato di fare un po’ di chiarezza, di spiegare che cos’è la resilienza e chi sono le persone resilienti e su come situazioni drammatiche come la pandemia possono costituire anche un’opportunità di cambiamento e di crescita.
Che cos’è la resilienza.
La resilienza è la capacità di riuscire a vivere e a svilupparsi positivamente, in modo socialmente accettabile, a dispetto di uno stress o di una avversità che potrebbe comportare un esito negativo.
Essere resilienti non significa essere invulnerabili e non incontrare il dolore, non si tratta, infatti, di eliminare la sofferenza, ma di integrarla con gli elementi di forza (risorse) che sono insiti in ogni persona.
La resilienza può essere studiata a livello individuale, con un focus su una specifica comunità o, più di recente, a livello di sistema (ad esempio il sistema socio-sanitario). Indipendentemente dal livello di resilienza (individuale, comunità o sistema), il mondo scientifico ha analizzato quattro specifiche capacità di resilienza:
- Adaptive capacity: è la capacità di accettare e adattarsi ad un evento più o meno traumatico (ad es. la diagnosi di una malattia cronica);
- absorptive capacity: è la capacità di non limitarsi ad accettare e adattarsi alla situazione conseguente al verificarsi di un evento, ma la persona – piuttosto che la comunità o il sistema – innesca un processo attivo per far fronte in maniera efficiente ed efficace alla nuova situazione (per tornare all’esempio della diagnosi della malattia cronica, tale capacità consente alla persona di vedere anche nuove opportunità nonostante la malattia, utilizzando al meglio tutte le risorse a cui può attingere);
- anticipatory capacity, cioè la capacità di prevedere e prepararsi a situazioni da affrontare a breve, medio e lungo termine (l’adattamento allo smart working è un esempio di questo tipo di capacità);
- transformative capacity: è la capacità di un sistema di cambiare la sua struttura e le modalità di funzionamento per meglio affrontare una situazione di grande cambiamento; avere un sistema resiliente – e quindi capace di adattarsi ai mutamenti – significa avere persone, e conseguentemente comunità, più resilienti: la capacità trasformativa di un sistema, infatti, produce un impatto positivo in termini di resilienza dei singoli.
Chi sono le persone resilienti.
Boris Cyrulnik (1999), per descrivere la persona resiliente ha utilizzato la parola ossimoro, una figura retorica che consiste nell’accostare nella medesima frase due termini contrapposti. Secondo Cyrulnik, l’ossimoro mette in evidenza il contrasto di colui che, subito un duro colpo, vi si adatta mediante la scissione: una parte della personalità ricerca tutto ciò che le permette di trovare la forza di vivere; l’altra parte, quella che ha subito il colpo, invece, si necrotizza.
La figura retorica dell’ossimoro, quindi, caratterizza una personalità ferita ma resistente, sofferente ma desiderosa di sperare ancora. Le sofferenze costringono a trasformare e a sperare di cambiare lo sguardo sulla realtà (Malaguti, 2005).
La resilienza è un processo naturale che spinge l’individuo a relazionarsi con l’ambiente ecologico, affettivo, verbale: se anche solo uno di tali ambienti dovesse venire meno, il processo si bloccherà, se, invece, troverà anche un solo punto di appoggio, la ricostruzione ricomincerà.
Le persone resilienti sono generalmente persone:
- con una spiccata curiosità: amano scoprire come funzionano le cose e non si fanno abbattere dagli errori, anzi li considerano una scusa in più per imparare e stupirsi;
- capaci di imparare dalle esperienze;
- capaci di adattarsi rapidamente;
- con un buon livello di autostima: conoscono bene i propri pregi e difetti e, a poco a poco, riescono a superare i propri limiti;
- capaci di esprimere i propri sentimenti senza paura;
- empatiche;
- capaci di tenere lontani e non farsi influenzare da manipolatori e persone tossiche;
- ottimiste;
- indipendenti;
- perseveranti.
L’altra faccia della crisi.
Abbiamo detto che la resilienza è la capacità di superare con successo delle crisi, ma vediamo ora meglio che cos’è una “crisi”.
Il termine crisi deriva dal greco krisis, che significa scelta. Scegliere significa assumersi la responsabilità di intraprendere una strada piuttosto che un’altra e in ogni caso perdere in modo irreversibile qualche cosa per acquistare qualcos’altro. Le situazioni di crisi possono avere un andamento naturale, che implica il loro superamento anche grazie alle risorse biologiche, personali, sociali, spirituali o di solidarietà che si attivano o si incontrano, ma possono anche bloccare il percorso di crescita personale, impedendo all’individuo di uscirne con una forza rinnovata. In ogni caso, le crisi mostrano una condizione di vulnerabilità che non sempre è possibile celare.
Ogni crisi genera un cambiamento, una rottura, è come se improvvisamente lo scenario si trasformasse e cambiasse lo sfondo: per consentire ad una persona di uscire da questa condizione è opportuno aiutare la persona a riannodare i fili tra il passato, il presente ed il futuro; questo significa operare secondo una prospettiva della resilienza, capace di potenziare le risorse e favorire lo sviluppo di quelle latenti e aiutare la persona a mantenere i legami o anche a riconnettersi con un territorio che temporaneamente ha dovuto abbandonare.
E’ importante lasciare alla persona il tempo e lo spazio di cui necessita per vivere la propria situazione e condizione, evitando di obbligare a ad una relazione che rischia di essere impositiva e non produttiva; allo stesso tempo, però, si può mettere in atto un’azione delicata attraverso la quale aiutare la persona ad attivare delle strategie di risposta positiva all’evento traumatico.
Ma esiste “un’altra faccia” della crisi.
Siamo abituati ad attribuire alla parola “crisi” un’accezione negativa, utilizzandola per riferirci al peggioramento di una situazione… ma riflettendoci, possiamo coglierne anche una sfumatura positiva. Infatti un momento di crisi cioè di riflessione, di valutazione, di discernimento, può trasformarsi nel presupposto per un miglioramento, una rinascita, un rifiorire. Nei momenti di maggiore difficoltà non è raro scoprirsi più forti di quanto non si sia mai pensato di essere, rintracciando in se stessi delle risorse ed una capacità di reagire sino a quel momento inimmaginabili: in sintesi, ci si scopre persone “resilienti”.
Quindi la crisi può essere anche vista come l’opportunità di scoprire qualcosa di nuovo, nel mondo ma anche – anzi soprattutto – in noi stessi!
Ad alcune persone questo modo di pensare viene naturale, quindi vivono ciò che accade loro, le difficoltà che incontrano nella vita, come delle sfide da vincere mettendo in campo tutte le proprie qualità e capacità… ma purtroppo non per tutti è così. Per i motivi più disparati (temperamento, personalità, educazione ricevuta, esperienze di vita passate ecc.), ci sono persone che di fronte alle avversità della vita si fanno abbattere, si arrendono e non riescono a credere di potercela fare a superare il momento, sono convinti di non averne le capacità e la forza. Queste persone hanno bisogno del supporto di un professionista della salute, che le accompagni in un processo di crescita personale e di scoperta delle proprie risorse interiori.
Crisi, resilienza e pandemia.
La pandemia da Covid-19 è senza dubbio una gigantesca e difficilissima prova che la nostra società – ed il mondo intero – ha dovuto affrontare. Le ricadute psicologiche sono state, e lo saranno ancora per molto tempo, pesanti per tutti e devastanti per molti.
La psiche umana non è strutturata per vivere a lungo e costantemente in pericolo senza che tutti i suoi apparati ne restino profondamente alterati, in primis il sistema immunitario. Ne deriva che l’azione dei medici, e in generale del personale sanitario, debba essere anche orientata a riconoscere, ed eventualmente disattivare, i meccanismi di eccessiva allerta e preoccupazione.
Le principali manifestazioni del disagio psicologico sofferto dalla popolazione sono ansia, attacchi di panico, depressione, incapacità di riprendere una vita di relazione normale senza allarmismo e troppa preoccupazione. Questi sono sintomi che, con modalità ed intensità differenti, sono comparsi in tutte le fasce della popolazione, non solo nelle persone anziane o fragili, ma anche nelle persone adulte, che prima della pandemia non avevano mai sperimentato nulla di simile, e persino nei bambini e negli adolescenti, i quali hanno pagato il maggiore scotto per l’imposta limitazione (se non annullamento) della socializzazione.
Nelle RSA, inoltre, si è osservato che a causa delle misure di contenimento del contagio, gli ospiti hanno manifestato sintomi di depressione e deterioramento psico-organico. In sintesi, un’involuzione generale che in diversi casi si è manifestata con dimagrimenti importanti, rifiuto del cibo, apatia, aggravamento dei sintomi della demenza. L’isolamento sociale ha provocato un deterioramento cognitivo anche nelle persone anziane non ricoverate, ma che hanno comunque ridotto drasticamente i contatti sociali.
E’ quindi urgente trovare un giusto equilibrio tra le misure classiche di contenimento del virus tramite distanziamento, lockdown, ecc. E’ quella che oggi l’OMS chiama pandemic fatigue, ossia “la “naturale e prevedibile reazione a uno stato di crisi prolungata della salute pubblica, soprattutto perché la gravità e la dimensione dell’epidemia da Covid-19 hanno richiesto un’implementazione di misure invasive con un impatto senza precedenti nel quotidiano di tutti, compreso di chi non è stato direttamente toccato dal virus”, che ha comportato l’aggravamento o l’insorgenza di tutta una serie di altre problematiche mediche e sociali.
E’ inoltre di fondamentale importanza iniziare a occuparsi e preoccuparsi seriamente della resilienza psicologica, creando le condizioni per promuovere realmente la resilienza delle persone e delle comunità… affermarlo a parole e, ancor di più, limitarsi a porla come richiesta non serve a nulla e a nessuno, sono necessarie azioni concrete.