Gli psicofarmaci fanno male? I pareri degli esperti sono contrastanti.
Il ricorso agli psicofarmaci è un tema controverso persino tra gli addetti ai lavori.
A quei medici e psichiatri che ritengono che il cervello sia un organo del corpo umano al pari degli altri, e che come gli altri debba essere curato, si contrappongono i fautori della tesi che i disturbi mentali non hanno basi biologiche e che quindi non si debba ricorrere all’utilizzo di farmaci di sintesi per curarli.
Le posizioni
A queste due posizioni corrispondono una diversa enfasi posta sugli effetti collaterali degli psicofarmaci. I sostenitori della psicofarmacologia evidenziano come i benefici che i farmaci hanno sulla salute mentale del paziente sono decisamente maggiori rispetto agli effetti collaterali che provocano. Chi invece ritiene che la mente non vada curata con i farmaci afferma che essi, oltre a non curare la malattia ma, eventualmente, solo i suoi sintomi, provocano dei danni irreparabili al cervello.
Questa contrapposizione non aiuta a superare i pregiudizi nei confronti degli psicofarmaci.
I principali pregiudizi sugli psicofarmaci.
Se prendo psicofarmaci vuol dire che sono pazzo? Riuscirò a studiare/lavorare se prendo psicofarmaci? Queste sono solo alcune delle domande che si pongono le persone quando viene prospettata loro una terapia farmacologica.
Tra le ragioni all’origine di tali timori vi sono i gravi effetti collaterali dei primi antidepressivi ed antipsicotici approvati, l’utilizzo improprio di alcuni farmaci negli scorsi decenni ed il ricorso di diversi Governi del passato agli psicofarmaci come strumento di controllo sociale.
Tra i pregiudizi più diffusi sugli psicofarmaci ci sono:
- Chi li prende è pazzo o è un caso grave: l’assunzione di una terapia psicofarmacologica non è indice né di pazzia né di gravità, semplicemente il medico ha valutato che quella è la soluzione più veloce per ottenere un miglioramento della qualità di vita del paziente. I farmaci consentono il ristabilirsi di un equilibrio psico-fisico nel giro di qualche settimana, mentre terapie di altro genere da sole, come ad esempio la psicoterapia, necessitano di un tempo medio più lungo (6-12 mesi) per produrre degli effetti significativi. Ad ulteriore conferma di ciò, c’è da dire che ci sono patologie effettivamente gravi per le quali il trattamento di prima scelta non è quello farmacologico, bensì quello psicologico (ad es. in alcuni disturbi di personalità).
- Se si inizia a prenderli non si smette mai: la stragrande maggioranza dei trattamenti farmacologici in psichiatria ha una durata preventivata minore di 1-2 anni. Ciò vuol dire che dopo questo periodo di trattamento, il farmaco può essere sospeso (in modo graduale, sotto controllo di un medico) mantenendo il beneficio raggiunto, in quanto un trattamento di tale durata consente di stabilizzare gli effetti positivi raggiunti. Ci sono alcune patologie psichiatriche (quali ad esempio la schizofrenia ed il disturbo bipolare), che hanno un andamento cronico e per le quali non esiste a tutt’oggi un farmaco curativo in senso stretto, per le quali è consigliata una terapia farmacologica di mantenimento, che consenta di tenere sotto controllo il disturbo… ma, se ci pensate, lo stesso accade per alcune malattie organiche croniche diffuse, come il diabete e l’ipertensione.
- creano dipendenza: la maggior parte delle terapie farmacologiche – a patto di essere assunte sotto stretto controllo medico – possono essere sospese gradualmente senza problemi, mantenendone i benefici. L’unica classe di farmaci che crea realmente dipendenza sono le benzodiazepine, utilizzate per tenere sotto controllo l’ansia o la regolazione del ritmo sonno-veglia: tali farmaci – che hanno un effetto sintomatologico senza costituire un vero e proprio trattamento “curativo” – non devono essere assunti per più di tre mesi consecutivi (e, ovviamente sempre sotto stretto controllo medico).
- Sono un segno di debolezza: l’utilizzo di una farmacoterapia può aiutare a controllare o ad alleviare dei sintomi, che sono di un’intensità tale da essere difficilmente sopportabili o gestibili, o che intaccano in maniera evidente il funzionamento quotidiano e la qualità di vita. In tale condizione sarebbe difficile per chiunque “farcela da solo”. Sarebbe come dire che se prendo del paracetamolo per abbassare una febbre di 40 gradi sono debole e non sono riuscito a resistere il tempo necessario perché la febbre calasse da sola: in realtà il perdurare di una febbre alta, così come di sintomi psichici, è deleterio per la persona perché può portare a complicazioni anche gravi.
- Spengono la consapevolezza di sé: la consapevolezza di se stessi è la percezione di sé come essere unico con pensieri, emozioni, corpo e comportamento, in continuità nel tempo. Si tratta di una funzione psichica che può essere compromessa da alcuni disturbi psichiatrici, da lesioni cerebrali o dall’utilizzo di sostanze di abuso: nessun trattamento psicofarmacologico opportuno determina uno spegnimento della coscienza, Il trattamento farmacologico in questi casi mira, al contrario, a ristabilirla.
- Compromettono la capacità di lavorare o studiare: nella maggior parte dei casi la terapia psicofarmacologica non compromette, anzi ripristina, la capacità di concentrarsi in attività lavorative o di studio. Le uniche categorie di farmaci che hanno effetti sulla capacità di prestare attenzione e sui riflessi sono le benzodiazepine (ansiolitici) e gli antipsicotici, che possono creare sonnolenza diurna: nel primo caso, come già scritto sopra, si tratta di farmaci che possono essere assunti solo per periodi brevi ed è bene, in tali periodi, astenersi dal guidare o dallo svolgere altre attività che richiedano concentrazione; riguardo ai secondi, l’effetto collaterale della sonnolenza diurna si manifesta all’inizio del trattamento e si riduce in modo progressivo nel tempo.
- Impediscono di guidare: come scritto nel punto precedente, ciò vale solo per gli ansiolitici e solo nel periodo di assunzione, mentre In generale i trattamenti psichiatrici prescritti e monitorati da uno specialista non controindicano la guida. Esistono tuttavia alcune categorie di farmaci psichiatrici, come gli antipsicotici e gli stabilizzatori del tono dell’umore, la cui prescrizione continuativa richiede che il rinnovo della patente avvenga di fronte alla commissione medica patenti, previa certificazione da parte del medico curante e dello psichiatra curante.
- sono un manicomio chimico: è errato paragonare la psicofarmacoterapia con il manicomio. Lafunzione di queste strutture (introdotte in italia nel 1904 dalla legge Giolitti e abolite dalla legge Basaglia nel 1978), – come in generale della psichiatria di quel periodo– era quella di controllo sociale tramite la segregazione di chi soffriva di una patologia mentale (nell’erronea convinzione che fossero pericolosi); al contrario, la terapia attraverso gli psicofarmaci ha l’obbiettivo di migliorare la qualità di vita del paziente, riducendo e contrastando i sintomi presenti. Quindi, in realtà, gli psicofarmaci spesso “liberano” il paziente dai propri sintomi, consentendogli di riprendere le proprie attività quotidiane e le proprie abitudini di vita.
Il ruolo del medico psichiatra.
Il ruolo del medico quando prescrive uno psicofarmaco è quello di rassicurare il paziente, spiegandogli come agirà il farmaco, quanto tempo passerà prima di poter osservare dei miglioramenti, quali sono gli effetti collaterali che potrà provocare e, soprattutto, che non necessariamente dovrà essere preso per tutta la vita o, quantomeno, non nelle medesime quantità.
Per il buon esito del trattamento è importante che il paziente sia sereno ed abbia consapevolezza di cosa accadrà, o potrà accadere, e dei tempi. Essere ben informato gli consentirà di non sentirsi disorientato ed in balia degli eventi.
Per quanto concerne gli effetti collaterali, è bene che il medico li illustri e li spieghi chiaramente al paziente in quanto ve ne sono alcuni che hanno degli effetti collaterali che, se inaspettati, possono avere un effetto fortemente negativo sulla vita del paziente e della sua famiglia e, in generale, sulle sue relazioni interpersonali.
Ad esempio, Ci sono farmaci che hanno un effetto inibitorio sulla libido e, se non si è a conoscenza del fatto che ciò dipende dal trattamento farmacologico, ciò può interferire con la vita intima della coppia, dando origine ad un problema aggiuntivo a quello della patologia psichica ed ostacolando il successo del trattamento stesso. Ci sono invece farmaci che innescano una dipendenza dal gioco d’azzardo (ad esempio i farmaci per curare il morbo di Parkinson): in questo caso, oltre alla ricaduta sulla qualità delle relazioni familiari (e delle relazioni sociali in generale), questo effetto collaterale può dar luogo anche ad un grave danno economico. Questi sono solo due esempi per far comprendere quanto sia determinante la buona comunicazione medico-paziente.
Le stampelle della mente.
All’inizio di questo articolo ho illustrato le posizioni contrapposte circa il rapporto costi-benefici ed utilità degli psicofarmaci. Personalmente concordo con chi considera gli psicofarmaci dei farmaci come qualsiasi altro e il cervello un organo come gli altri, che come gli altri dev’essere curato (al pari di quanto si fa con il cuore, il fegato, i polmoni ecc.).
Io considero gli psicofarmaci come delle “stampelle della mente”. Quando ci si rompe una gamba, per un certo periodo di tempo, si devono utilizzare le stampelle per evitare di caricare sull’arto danneggiato; in una seconda fase si può iniziare ad utilizzarne solo una e, alla fine, si ricomincia a camminare senza.
Allo stesso modo, quando si ha un disturbo psichico, gli psicofarmaci sono quella risorsa (al pari delle stampelle quando si ha una gamba rotta) che consente in un tempo ragionevole di liberarsi dai sintomi acuti. Una volta che c’è stata la remissione completa dei sintomi, al fine di mantenere i benefici ottenuti con la terapia farmacologica, si può iniziare a ridurre gradualmente le dosi dei farmaci (per tornare all’esempio, si passa all’utilizzo di una sola stampella) per poi arrivare alla sospensione completa.
Come abbiamo visto, ci sono casi in cui le patologie sono croniche, per cui è necessaria una terapia di mantenimento: ciò non deve spaventare, è quello che accade con tutte le patologie croniche (pensiamo al diabete, all’ipertensione o, per restare nell’esempio motorio, all’utilizzo di un ausilio per camminare in presenza di un problema di deambulazione).
In ogni caso, è fondamentale seguire sempre le prescrizioni del proprio medico curante… il “fai da te” non è un’opzione praticabile!
gentile dott.essa caravello, condivido la sua posizione “il cervello è un organo come tutti gli altri, quindi, se mal funzionante, va curato come curiamo gli altri organi” cui aggiungerei “occorrerebbe investire nelle diagnosi tecnologiche e nelle terapie mirate” “attenzione alle psicoterapie e agli interventi psicologici, se sbagliati potrebbero fare più danni di un farmaco sbagliato” “tremila anni di chiacchere dei migliori cervelli che l’umanità abbia espresso hanno prodotto, a proposito del nostro cervello, solo appassionanti romanzi privi di ogni rapporto con la realtà” “la salute mentale non esiste come non esiste la salute fisica, al di sopra di certi livelli esiste la patologia”….tutto ciò premesso attenzione a non alzare troppo l’asticella includendo nel patologico normali, spesso necessarie, reazioni al marasma endogeno ed esogeno in cui viviamo da sempre, le passioni ed i desideri spesso delusi, le emozioni positive e negative, i legami e le separazioni da cose e persone e molto altro ancora: gli psicofarmaci non sono un pranzo di gala, vanno usati solo se indispensabili